Oggi vi posto un articolo tratto dal blog Eliotropo. Come mai dell'Islanda non ne parla nessuno? Nessun telegiornale, nemmeno un trafiletto sui giornali, nulla. 
L'hanno
 definita una 'rivoluzione silenziosa' quella che ha portato  l'Islanda 
alla riappropriazione dei propri diritti. Sconfitti gli  interessi 
economici di Inghilterra ed Olanda e le pressioni dell'intero  sistema 
finanziario internazionale, gli islandesi hanno nazionalizzato  le 
banche e avviato un processo di democrazia diretta e partecipata che  ha
 portato a stilare una nuova Costituzione.
Oggi
 vogliamo raccontarvi una storia, il perché  lo si capirà dopo. Di 
quelle storie che nessuno racconta a gran voce,  che vengono piuttosto 
sussurrate di bocca in orecchio, al massimo  narrate davanti ad una 
tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri  amici. È la storia di 
una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la crisi 
peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne è uscita
 nel migliore dei modi. 
L'Islanda.
  Già, proprio quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto
  alla cronaca per vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro 
sbuffi  bianchi sono in grado di congelare il traffico aereo di un 
intero  emisfero, ha dato il via ad un'eruzione ben più significativa, 
seppur  molto meno conosciuta. Un'esplosione democratica che 
terrorizza i  poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta 
con se  messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, 
autodeterminazione  finanziaria, annullamento del sistema del debito.
Ma
  procediamo con ordine. L'Islanda è un'isola di sole di 320mila anime –
  il paese europeo meno popolato se si  escludono i micro-stati – privo 
di  esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell'intera Italia, situato un poco a sud dell'immensa Groenlandia.  
15
  anni di crescita economica avevano fatto dell'Islanda uno dei paesi 
più  ricchi del mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il  
modello di 'neoliberismo puro' applicato nel paese che ne aveva  
consentito il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto.  
Nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate  
completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti stranieri,
  adottando la tecnica dei conti online, che riducevano al minimo i 
costi  di gestione e permettevano di applicare tassi di interesse 
piuttosto  alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano 
Conto  Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi 
avevano  depositato i propri risparmi.
La Landsbanki fu la prima banca a crollare e ad essere nazionalizzata in seguito al tracollo del conto IceSave
Così,
  se da un lato crescevano gli investimenti, dall'altro aumentava il  
debito estero delle stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento  
del prodotto interno lordo islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era  
arrivato al 900 per cento. A dare il colpo definitivo ci pensò la crisi 
 dei mercati finanziari del 2008. Le tre principali banche del paese, la
  Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero in fallimento e vennero
  nazionalizzate; il crollo della corona sull'euro – che perse in
  breve l'85 per cento – non fece altro che decuplicare l'entità del 
loro  debito insoluto. Alla fine dell'anno il paese venne dichiarato in 
 bancarotta. 
Il
 Primo Ministro conservatore Geir Haarde,  alla guida della coalizione 
Social-Democratica che governava il paese,  chiese l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale,
 che accordò  all'Islanda un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di 
dollari, cui si  aggiunsero altri 2 miliardi e mezzo da parte di alcuni 
Paesi nordici.  Intanto, le proteste ed il malcontento della popolazione
 aumentavano.
A gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari internazionali
  spingevano perché fossero adottate misure drastiche. Il Fondo 
Monetario  Internazionale e l'Unione Europea proponevano allo stato 
islandese di  di farsi carico del debito insoluto delle banche, 
socializzandolo. Vale a  dire spalmandolo sulla popolazione. Era l'unico
 modo, a detta loro, per  riuscire a rimborsare il debito ai creditori, 
in particolar modo a  Olanda ed Inghilterra, che già si erano fatti 
carico di rimborsare i  propri cittadini.
Il
 nuovo governo, eletto con elezioni  anticipate ad aprile 2009, era una 
coalizione di sinistra che, pur  condannando il modello neoliberista fin
 lì prevalente, cedette da subito  alle richieste della comunità 
economica internazionale: con una  apposita manovra di salvataggio
 venne proposta la restituzione  dei debiti attraverso il pagamento di 3
 miliardi e mezzo di euro  complessivi, suddivisi fra tutte le famiglie 
islandesi lungo un periodo  di 15 anni e con un interesse del 5,5 per 
cento. 
I cittadini islandesi non erano disposti ad accettare le misure imposte per il pagamento del debito. 
Si trattava di circa 100 euro al mese a persona,
  che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un
  totale di 18mila euro a testa per risarcire un debito contratto da un 
 privato nei confronti di altri privati. Einars Már Gudmundsson, un  
romanziere islandese, ha recentemente affermato che quando avvenne il  
crack, “gli utili [delle banche, ndr] sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i cittadini d'Islanda era decisamente troppo. 
Fu
  qui che qualcosa si ruppe. E qualcos'altro invece si riaggiustò. Si  
ruppe l'idea che il debito fosse un'entità sovrana, in nome della quale 
 era sacrificabile un'intera nazione. Che i cittadini dovessero pagare  
per gli errori commessi da un manipoli di banchieri e finanzieri. Si  
riaggiustò d'un tratto il rapporto con le istituzioni, che di fronte alla protesta generalizzata decisero finalmente di stare dalla parte di coloro che erano tenuti a rappresentare.
Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson,
  si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere tutto il peso  
della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse, su richiesta di questi
  ultimi, un referendum, di modo che questi si potessero esprimere.
La
  comunità internazionale aumentò allora la propria pressione sullo 
stato  islandese. Olanda ed Inghilterra minacciarono pesanti ritorsioni,
  arrivando a paventare l'isolamento dell'Islanda. I grandi banchieri di
  queste due nazioni usarono il loro potere ricattare il popolo che si  
apprestava a votare. Nel caso in cui il referendum fosse passato, si  
diceva, verrà impedito ogni aiuto da parte del Fmi, bloccato il prestito
  precedentemente concesso. Il governo inglese arrivò a dichiarare che  
avrebbe adottato contro l'Islanda le classiche misure antiterrorismo:
  il congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi. “Ci
 è  stato detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba del nord
 –  ha continuato Grímsson nell'intervista - ma se accettiamo, saremo  
l’Haiti del nord”. 
I Cittadini islandesi hanno votato per eleggere i membri del Consiglio costituente 
A
  marzo 2010, il referendum venne stravinto, con il 93 per cento delle  
preferenze, da chi sosteneva che il debito non dovesse essere pagato dai
  cittadini. Le ritorsioni non si fecero attendere: il Fmi congelò  
immediatamente il prestito concesso. Ma la rivoluzione non si fermò. Nel
  frattempo, infatti, il governo – incalzato dalla folla inferocita – si
  era mosso per indagare le responsabilità civili e penali del crollo  
finanziario. L'Interpool emise un ordine internazionale di arresto  
contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. Gli altri banchieri implicati nella vicenda abbandonarono in fretta l'Islanda.
In
  questo clima concitato si decise di creare ex novo una costituzione  
islandese, che sottraesse il paese allo strapotere dei banchieri  
internazionali e del denaro virtuale. Quella vecchia  risaliva a quando 
 il paese aveva ottenuto l'indipendenza dalla Danimarca, ed era  
praticamente identica a quella danese eccezion fatta per degli  
aggiustamenti marginali (come inserire la parola 'presidente' al posto  
di 're'). 
Per la nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne eletta un'assemblea costituente composta da 25 cittadini.
  Questi furono scelti, tramite regolari elezioni, da una base di 522 
che  avevano presentato la candidatura. Per candidarsi era necessario 
essere  maggiorenni, avere l'appoggio di almeno 30 persone ed essere 
liberi  dalla tessera di un qualsiasi partito. 
Ma
 la vera novità è  stato il modo in cui è stata redatta la magna charta.
 "Io credo - ha  detto Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio 
costituente - che  questa sia la prima volta in cui una costituzione 
viene abbozzata  principalmente in Internet". 
L'Islanda  ha riaffermato il principio per cui la volontà del popolo 
sovrano deve  prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale 
Chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming
  online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le  
proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di  
una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi  
saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato di  
democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento  
immediatamente dopo le prossime elezioni.
Ed
 eccoci così  arrivati ad oggi. Con l'Islanda che si sta riprendendo 
dalla terribile  crisi economica e lo sta facendo in modo del tutto 
opposto a quello che  viene generalmente propagandato come inevitabile.
 Niente  salvataggi da parte di Bce o Fmi, niente cessione della propria
  sovranità a nazioni straniere, ma piuttosto un percorso di  
riappropriazione dei diritti e della partecipazione. 
Lo
  sappiano i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita del  
settore pubblico era l'unica soluzione. E lo tengano a mente anche  
quelli portoghesi, spagnoli ed italiani. In Islanda è stato riaffermato 
 un principio fondamentale: è la volontà del popolo sovrano a  
determinare le sorti di una nazione, e questa deve prevalere su  
qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per questo nessuno racconta a
  gran voce la storia islandese. Cosa accadrebbe se lo scoprissero 
tutti?